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  • : Blog di Sara Cespoli
  • : Luogo non luogo per lasciare impressioni, pensieri, emozioni.Per scambiare progetti, opinioni, sogni. Per immaginare quel mondo fantastico che ognuno si porta nel cuore.Talesa è un libro, ma anche un modo come un altro per farmi conoscere non solo come scrittrice, esordiente e ancora non conosciuta, ma anche come persona. Benvenuti a tutti quelli che passeranno di qui!!!
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TALESA

 

Preparativi per la guerra

 

 

Ferano non ricordava più l’ultima volta che aveva potuto dormire qualche ora. Dalla notte fatidica, la notte in cui lui si era risvegliato, ma anche la notte in cui aveva perso Talesa, non aveva avuto un attimo di tregua. Adesso, quando tutti i preparativi per l’attacco imminente si erano quasi conclusi, si era ritirato un attimo nei suoi appartamenti e si stava godendo la brezza fresca della sera, appoggiato alla balaustra del terrazzo che si apriva sulla sua camera da letto. Aveva smesso temporaneamente di piovere, ma l’aria era ancora carica di umidità. Il cielo era sempre ricoperto di nubi. Il mattino sarebbe stato nuovamente foriero di brutto tempo.

Ferano sospirava, mentre nella sua testa ripercorreva gli avvenimenti degli ultimi giorni. Non si era mai fermato a riflettere, prima di allora. Non aveva neanche avuto la possibilità di ripensare alla notte maledetta.

Vedeva ancora davanti a sé l’uomo coraggioso che aveva avvertito Alba del pericolo. Soffriva per la sua morte, che comunque aveva avuto grande significato per tutti loro. Se quell’uomo non avesse sfidato il suo destino, nessuno ancora avrebbe saputo dell’arrivo dei demoni. Il suono disperato del corno che l’uomo aveva tenuto in mano fino alla fine rintronava ancora nella sua mente. Poi ricordò il sibilo del Vento del Nord, che così stranamente era arrivato ad Alba fuori stagione… Come un magico richiamo, il ricordo di quel suono gli rammentò Talesa, il suo sguardo disperato dopo la morte di Galwin, la sua espressione selvaggia quando aveva inveito contro di lui per il male che aveva fatto al maestro. Gli schiaffi della ragazza bruciavano ancora sulla pelle e sul cuore. Poi, la corsa forsennata al buio per raggiungere la grande sala… E la separazione. Talesa era scomparsa, l’aveva rivista soltanto un attimo, con Seyda, e lo sguardo che si erano scambiati non lasciava adito a dubbi. Si amavano, di un amore puro e insostituibile. Il cuore di Ferano si era fermato per un secondo, quando l’imperatore comprese che, davvero, non aveva alcuna speranza di trattenere Talesa con sé: non l’avrebbe mai amato, e comunque la sua missione l’avrebbe portata lo stesso lontana da lui. Chissà dove era in quel momento… Provava una profonda nostalgia, nonostante il tempo che avevano trascorso insieme fosse stato molto breve, e ottenebrato dall’influsso negativo di Krana. Sorrise fra sé, pensando a uno dei primi ordini che aveva dato ai suoi uomini: distruggere, radere al suolo, la caverna dove era vissuta la strega per centinaia di anni. Non poteva dimenticare quanto male gli aveva procurato. Probabilmente ne sarebbe rimasta traccia nel suo animo provato per sempre; ma non doveva rimanere di lei nessun ricordo fisico.

Ironia della sorte, dal momento in cui era tornato se stesso, Ferano aveva sentito dentro di sé come amplificato il sentimento provato per Talesa, la meravigliosa ragazza che aveva cambiato la sua vita. Lo aveva salvato, per poi abbandonarlo. Il suo cuore, straziato per il dolore di vederla andare via verso il suo destino, aveva reagito infondendogli un coraggio che in precedenza non aveva mai provato. Si era gettato a testa bassa, guardando soltanto avanti e non soffermandosi su se stesso, nei preparativi per la guerra, e ciò gli era servito per un po’ a mantenere il distacco da tutto quello che era successo. Ma adesso…

Era solo, nella sua stanza lussuosa, e il pensiero di Talesa lo assalì di nuovo, quasi senza preavviso, pur essendo sempre rimasto latente e pronto a riemergere nel momento in cui l’imperatore si fosse concesso un po’ di riposo.

Ferano aveva accettato che Talesa lo considerasse solo un amico. Ma aveva una grande paura: che il destino gliela portasse via definitivamente, che non avrebbe avuto la possibilità di rivederla una volta ancora. Aveva paura per la sua incolumità, temeva che non sarebbe riuscita a sconfiggere Atamar. Sarebbe stata la fine per tutti. Per lui, sarebbe stata la certezza che il suo futuro sarebbe stato vuoto, senza di lei. Ormai non poteva cancellarla dalla sua vita, e pregava ogni giorno che fosse sana e salva, e, in un angolino del suo cuore, sperava che sarebbe tornata a trovarlo. Perché lui voleva poterle dimostrare un giorno quanto era riuscito a fare per Alba. Tutto grazie a lei. Grazie al suo intervento, Krana era morta, e adesso lui si sentiva pronto per il ruolo che il suo grande e saggio padre gli aveva affidato. Voleva essere un degno imperatore per la sua Alba, per il suo regno: lo voleva per Talesa, come ringraziamento per tutto quello che aveva fatto per lui. Voleva che fosse orgogliosa di lui, un giorno. Quando tutto questo sarebbe finito. Quando la guerra fosse giunta e poi terminata, sperando di rimanere in vita. Quando la causa di tutto questo male caduto sulle loro spalle, Atamar il dio crudele, fino a pochi giorni prima una leggenda, adesso vivo al pari di loro, anche lui impegnato nei preparativi per la stessa guerra, fosse scomparso.

La vita aveva un valore inestimabile, eppure quanto poco poteva essere salvaguardata! Quando gli esploratori, quei pochi che ce l’avevano fatta a tornare, gli avevano riferito e confermato gli attacchi ciechi e furiosi dei demoni al nord, Ferano si era sentito mancare: parte del suo popolo era scomparsa, e se lui si fosse mosso prima, forse, non sarebbe successo. Maledetta strega, lo aveva reso cieco davanti al pericolo. Si sentiva responsabile per tutte quelle vite stroncate, si sentiva sgomento di fronte alla distruzione cieca perpetrata dai demoni, anche se, di fatto, non era stata colpa sua. Non ragionava con la sua testa in quei momenti bui precedenti all’arrivo di Talesa, mentre adesso era lucido, e avrebbe dato la vita per Alba, pur di salvarla.

Quanti giorni erano passati da quella notte indimenticabile? Quante notti passate attorno ad un tavolo con i comandanti del suo esercito? Quante giornate a pianificare, organizzare, anche solo tentare la difesa? Quanti momenti a guardare negli occhi sconsolati dei suoi uomini, pensando che una settimana era veramente poca per mettere in atto tutto quello che si proponevano?

Dovevano prepararsi alla battaglia come all’assedio: gli esploratori avevano incontrato sulla loro strada l’esercito nemico, e da quanto era stato riferito, si trattava di una massa militare, fra l’altro ben organizzata, che contava più di centomila unità. Senza considerare che anche i primi demoni che avevano compiuto le tremende razzie nelle campagne si erano uniti al resto dell’esercito. Quanti erano in realtà? L’avrebbero saputo soltanto quando avrebbero raggiunto la piana di Alba.

La settimana era trascorsa. In realtà erano passati ben nove giorni, e davvero dovevano aspettarsi l’attacco da un momento all’altro. Quando gli esploratori erano tornati, l’esercito distava da loro ancora quattro giorni di marcia.

Questo due giorni prima.

Ferano aveva deciso di non mandare più altri uomini in perlustrazione, perché li avrebbe sicuramente destinati a morte sicura. Sperava soltanto che il nemico non avrebbe deciso di attaccare di notte. Gli uomini, nella notte, erano sempre più vulnerabili, perché più impauriti, davanti all’oscurità come davanti all’ignoto.

Sperava di aver provveduto a tutto. I ricordi erano disordinati e frammentati nella sua mente stanca, ma doveva in qualche modo rammentarli, per cercare di capire se avesse tralasciato qualcosa.

Lasciò la balaustra del terrazzo, e tornò all’interno della camera. Non aveva neppure voglia di sdraiarsi un po’ sul letto, o semplicemente non se lo poteva permettere: sapeva bene che, in caso di attacco, sarebbe stato avvertito dall’allarme, ma non voleva essere colto di sorpresa da quell’evento ormai difficilmente prorogabile oltre.

Poteva essere quella stessa notte.

Raggiunse il salotto, dove un suo inserviente aveva avuto la buona idea di accendere il caminetto. Sul tavolino basso davanti al divano, giaceva un mazzo di gigli bianchi ormai appassiti. Non aveva voluto farlo gettare. Ma adesso, l’odore pungente di fiori marci gli fece capire quanto quella decisione era stata ridicolmente sentimentale e infantile. Prese in mano quel che restava del mazzo di fiori destinato all’amore della sua vita, e lo gettò nel fuoco. Così, sigillava la fine del suo amore. Così sperava di scongiurare il pericolo per lei, lasciandola libera. Libera di amare il suo Seyda. Così pregava nel suo cuore di poterla riabbracciare almeno una volta ancora, nella sua vita.

Osservò i fiori già morti sfrigolare nelle fiamme, che l’inghiottirono senza pietà nel giro di pochi minuti. Quando il nastro bianco di raso che li teneva insieme sparì trasformandosi in brace, Ferano si riscosse, e andò a sedersi sul divano. Chiuse gli occhi, facendosi cullare dal rumore confortante del fuoco che scoppiettava facendogli compagnia. Unica immagine nella sua mente, lo sguardo che Talesa gli aveva rivolto prima di scomparire: uno sguardo sereno, incoraggiante, uno sguardo che gli diceva muto che si stava comportando da vero imperatore. Forte di questo ricordo, fece fluttuare liberi i suoi pensieri, ripercorrendo in ordine quanto era accaduto in quegli otto giorni.

 

Il primo giorno, fu un giorno di totale confusione. La notizia della guerra imminente colpì gli animi come un maglio d’acciaio, e, sebbene per alcuni, come per i consiglieri, non fosse del tutto inaspettata, tuttavia la reazione principale fu di sgomento.

Già dalla notte, Ferano aveva convocato con urgenza un consiglio di guerra, cui vi parteciparono i consiglieri e i comandanti dell’esercito. Era necessario, prima di ogni altra cosa, misurare ed organizzare le proprie forze.  Alba non ricordava l’ultima volta in cui era stata coinvolta in una guerra così totale, ma l’esercito permanente non era mai stato sciolto. Tutti i soldati in servizio vivevano all’interno della cittadella di Alba. Non fu difficile rintracciare i due comandanti: Gormir, veterano di guerra, che comandava la sezione della cavalleria, e Calamir, preposto al comando della fanteria e degli arcieri. Ferano era il primo comandante dell’intero esercito, sebbene durante il suo breve regno non l’avesse mai convocato, e conosceva alla perfezione la sua composizione. All’interno della cittadella di Alba, trovava alloggio l’unità di cavalleria, composta di cinquecento uomini, fra i più valorosi del regno. Si contavano circa mille arcieri addestrati, un migliaio ancora di fanti e circa duemila soldati semplici. La forza dell’esercito era costituita dal nucleo di cavalieri. Sommate tutte le unità subito disponibili, il risultato fu tuttavia deludente: era un esercito troppo piccolo. Neanche cinquemila uomini contro un esercito che ne contava per lo meno centomila! Erano spacciati. Lo sapevano in partenza. Ma altre forze potevano provenire dall’esterno. Perciò, la seconda cosa di cui avrebbero dovuto preoccuparsi era chiamare alle armi tutti i cittadini abili a combattere nel regno. Già all’alba, sarebbero partiti cinquanta messaggeri che si sarebbero sparsi per tutta Verdena, per divulgare il bando dell’imperatore. Ferano studiò personalmente il testo del bando, incentrando il richiamo alle armi e l’urgenza all’arruolamento volontario sul ricordare il valore dimostrato da Floriana quattrocento anni prima, nel combattere il male, ovvero lo stesso nemico di adesso. Così facendo, Ferano evidenziò l’importanza non del suo ruolo, in quanto imperatore di Verdena, ma come servitore, al pari di chi avesse preso le armi, della religione naturale, sempre presente nel cuore di tutti pur se da molti dimenticata. Parlò anche dell’avvento di una nuova Dedicata, rendendo così ufficiale l’esistenza di Talesa. Per lei dovevano combattere, perché lei era già in prima linea a combattere Atamar, il dio risvegliato, causa di ogni male. Per lei i cuori si dovevano armare di grande coraggio: come lei rischiava la sua vita per Verdena, così dovevano fare i sudditi dell’imperatore. Il discorso di Ferano non nascondeva la situazione disperata in cui si trovava Alba: non nascondeva la possibilità di un lungo assedio per la città. Ma ricordava l’imbattibilità dell’esercito imperiale, e, soprattutto, il valore e il coraggio dei suoi uomini. Il pericolo riguardava tutti, e chiunque fosse capace di brandire un’arma doveva contribuire a scacciarlo. Ferano faceva appello soprattutto ai giovani, la nuova speranza per un regno di pace; usò mille parole per blandire gli animi, ma non cercò di illudere la sua popolazione: probabilmente pochi uomini sarebbero sopravvissuti. Ma nessuno sarebbe stato dimenticato mai, il valore dimostrato da ognuno sarebbe rimasto nella storia. L’imperatore sperava in cuor suo che tanti uomini avrebbero risposto al suo appello. Non voleva usare nessun tipo di arruolamento coercitivo: uomini costretti a combattere non affrontavano la morte con coraggio e determinazione, ma con rassegnazione e senza stimolo. Era l’ultima cosa di cui avevano bisogno. Molte province settentrionali ormai già sapevano del pericolo, essendo stati attaccati dai primi demoni, e Ferano non si sarebbe stupito, quando, qualche giorno dopo molti uomini si sarebbero presentati spontaneamente alle porte della città senza aver avuto la minima notizia del bando imperiale. Questo Ferano non poteva saperlo ancora, tuttavia previde di misura il risultato che avrebbero raggiunto, in termini di unità, calcolando con l’aiuto dei consiglieri che sarebbero arrivati circa diecimila uomini ad ingrossare le file dell’esercito. Sperava anche nell’arrivo di soldati dalle città più grandi che necessitavano di una guarnigione sempre attiva anche in tempo di pace, per le normali operazioni di protezione e sorveglianza della popolazione.

Non bastavano ancora. Ma per questo non potevano fare di più. Dovevano affidarsi a dati probabili, se non certi, e misurare attentamente le forze disponibili. Avrebbero usato altre risorse.

La cittadella di Alba, oltre che meravigliosamente bella, poteva trasformarsi in una fortezza formidabile, che, nella sua storia, non era mai stata conquistata. In attesa che l’esercito si fosse organizzato con i nuovi arrivi, dovevano prepararsi all’assedio.

Già all’alba del giorno dopo, era stato organizzato il piano di approvvigionamento per le provviste che sarebbero servite a sfamare l’esercito e le persone che vivevano in città. Un buon margine di vettovaglie in più fu considerato per i rifugiati che presto si sarebbero riversati in città, dopo che la notizia della guerra avesse raggiunto l’intero regno. I granai erano pieni, i magazzini avevano a disposizione normalmente provviste che rendevano autosufficiente la popolazione per oltre novanta giorni, le cucine della reggia disponevano di enormi dispense piene di cibi essiccati; con l’arrivo delle provviste raccolte dalle provincie meridionali, sicuramente più ricche di risorse naturali e meno provate dall’attacco de demoni, potevano contare su un’autonomia totale di svariate settimane. Ferano e i suoi collaboratori avevano preventivato un assedio di circa sessanta giorni. Speravano naturalmente che non si sarebbe protratto così a lungo, ma erano talmente tante le bocche da sfamare, che non risparmiarono su nulla. Speravano soprattutto che una volta sconfitto Atamar, Talesa li avrebbe raggiunti in tempo per dar loro mano con i suoi poteri, e che l’esercito nemico, avvertita la morte del proprio padrone, si sarebbe in qualche modo indebolito. Ma erano tutte congetture: dovevano essere autosufficienti; il cibo sarebbe bastato per cento giorni, ma l’assedio avrebbe dovuto risolversi molto prima. Sinceramente non avevano risorse umane sufficienti per andare avanti per così tanto tempo.

Risolto il problema dell’approvvigionamento, Ferano spostò la sua attenzione sulla città come struttura militare atta a difendere, ma anche ad attaccare.

Per prima cosa, fu ripristinata la rete di tunnel sotterranea che scorreva sotto le fondamenta di Alba. Quella sarebbe stata il luogo di raccolta per i bambini, le donne, gli anziani e i rifugiati, nonché i non abili alla guerra.

I tunnel erano stati costruiti ai tempi del bisnonno di Ferano: non erano, di fatto, mai stati usati, prima di allora. Erano stati frutto del profondo senso di prudenza dell’imperatore di allora, che, pur in tempo di pace, aveva pensato a una struttura nascosta da usare in caso di pericolo per i più deboli. Fu organizzata una squadra di scavatori e muratori per perlustrare l’intera rete sotterranea, per scongiurare crolli improvvisi, o per sgombrare cammini sbarrati da rocce cadute negli anni. Dopo la perlustrazione, la squadra si presentò dall’imperatore con un rapporto tutto sommato incoraggiante: a meno che Alba non fosse stata rasa al suolo, il rifugio avrebbe resistito.

Tutti i cittadini di Alba, nonché gli abitanti della reggia e chi, fra i servitori, non era strettamente necessario alla normale gestione della vita quotidiana all’interno delle mura, ebbero l’ordine di prepararsi a lasciare le proprie case e stanze, per spostarsi sotto terra non appena avessero radunato, fra i loro averi, solo ciò di cui avevano un bisogno imprescindibile: cambi di abito, coperte, le provviste che avevano in casa, acqua.

Soltanto i soldati sarebbero rimasti in superficie. Se il nemico avesse sfondato le mura esterne di Alba, avrebbe trovato una città fantasma, disabitata, e con migliaia di uomini pronti all’agguato, approfittando dei dedali di stradine e vicoli strategici di cui la città era piena.

I tunnel sotterranei erano ben areati, abbastanza grandi da contenere tutta la popolazione vicina. Furono allestiti giacigli, posti di raccolta per cibo e acqua, e fu portata un’infinita scorta di cera per fabbricare le candele che sarebbero servite ad illuminare l’ambiente. Le persone ivi rinchiuse, avrebbero avuto una profonda nostalgia del sole, e più luce faceva loro compagnia, più gli animi sarebbero stati sollevati.

Non mancavano zone adibite esclusivamente alle cure mediche, per chi avesse avuto bisogno di aiuto. Tali zone erano delimitate da tendoni estesi che garantivano una certa discrezione ai malati. Per i soldati, fu allestita un’enorme tenda all’interno della cittadella, che funzionava da infermeria per i feriti gravi, che sicuramente sarebbero stati moltissimi, e sarebbero arrivati soprattutto durante i primi scontri all’esterno.

Nello stesso tempo in cui venivano ripristinati e allestiti i tunnel, l’attenzione era posta anche sullo stato delle fortificazioni esterne. Alba era considerata una città splendida per le sue mura lucenti e rifinite di oro, che la rendevano un sole agli occhi dei viaggiatori che le si avvicinavano per la prima volta, ma al suo interno nascondeva notevoli barriere difensive. Oltre al muro maestoso, profondo quattro metri, che racchiudeva la reggia, la città era circondata da altre due cinte di mura spesse il doppio, interrotte soltanto dalla porta che si affacciava a sud, costruita interamente in ferro e pesantissima da spostare, imbattibile ai colpi di qualsiasi ariete, e dalla porta che si trovava a nord, più piccola, ma altrettanto resistente, costruita in legno, ma protetta da decine di longarine di robusto acciaio. La porta a nord si apriva direttamente sulla guarnigione dell’esercito antistante alla reggia, se raggiunta da settentrione.

Sia la cinta muraria della cittadella, sia le mura che circondavano la reggia, erano dotate di camminamenti molto ampi, dove potevano comodamente sistemarsi gli arcieri. I camminamenti erano protetti dall’esterno da una serie di merlature alte quanto un uomo, interrotte da sottili feritoie distanti mezzo metro l’una dall’altra, da cui gli arcieri potevano tirare le frecce pur rimanendo protetti. La superficie esterna delle mura era liscissima, in maniera tale che il nemico non potesse arrampicarsi e raggiungere i camminamenti. Quando iniziò il flusso di carri che portavano le provviste richieste, Ferano si preoccupò che venissero portate anche grosse quantità di pece e olio, affinché potessero essere usate bollenti, durante l’assedio, per scoraggiare i nemici che avrebbero tentato di raggiungere le mura usando scale o altri attrezzi improvvisati. Olio e pece sarebbero stati calati attraverso le caditoie, sporgenze che si trovavano a metà altezza delle mura, atte proprio a quello scopo. Migliaia di sacchi pieni di sabbia furono sistemati alla base delle mura esterne e dei camminamenti in alto, per scongiurare la formazione di incendi, e per protezione contro le fiamme che si sarebbero sviluppate.

Intanto ferveva l’attività nelle varie fucine, permanenti e improvvisate, all’interno della cittadella. Da mattina a sera si poteva sentire il rumore dell’acciaio forgiato dalle abili mani di decine di fabbri. Furono fabbricate in tutta fretta spade, spadoni a due mani, mazze in acciaio, e migliaia di punte acuminate per le frecce destinate agli abili arcieri che sarebbero rimasti sui camminamenti all’interno delle mura, e che avrebbero attaccato per primi non appena fosse giunto il nemico.

L’attività ferveva davvero per ogni dove, e quando Ferano usciva in compagnia dei suoi collaboratori per controllare che tutto quello che aveva ordinato fosse stato eseguito, si stupiva sempre del grande zelo che gli abitanti di Alba dimostravano nelle loro opere. Gli si stringeva però il cuore, se pensava a quante poche forze potevano schierare in campo. Nella sua mente, durante quelle ore trafelate, che scorrevano troppo veloci verso il pericolo, stava prendendo corpo la strategia di guerra che, con così pochi uomini, potevano impiegare, e più ci pensava, più si convinceva che resistere all’assedio sarebbe stato più facile che combattere in campo aperto, dove la maggioranza numerica dell’esercito di Atamar li avrebbe subito schiacciati. Pensava di poter usare, con l’approvazione di Gormir che ne era al comando, la sezione della cavalleria per effettuare attacchi a sorpresa per colpire l’avanguardia nemica. Contava sulla velocità e la perizia dei cavalieri, perché la capacità di ritirarsi velocemente dopo aver sferrato l’attacco era fondamentale per l’incolumità dei soldati. Ma pensava anche che una strategia militare troppo definita poteva essere inutile davanti a un esercito mai combattuto, composto di demoni dalle tecniche belliche imprevedibili.

Non potendo puntare esclusivamente sulla forza, Ferano decise di agire con furbizia e arguzia, creando delle fortificazioni difensive aggiuntive, e dal secondo giorno, con la supervisione di abili operai, iniziò a far scavare un fossato mediamente profondo che avrebbe circondato l’intero perimetro della cittadella. Discusse a lungo con i consiglieri su quale fosse tra due alternative la più giusta e veloce da realizzare: riempire il fossato di acqua, o renderlo una trappola letale, riempiendolo di pali appuntiti, e ricoprendolo poi di rami e foglie mimetizzandolo alla meglio, in modo tale che il nemico vi cadesse dentro. Dato che non c’era il tempo materiale per il trasporto di acqua dalle località confinanti, o per cercare di deviare il corso del fiume più vicino, e, con l’aggiunta che, in caso di assedio più o meno lungo, l’acqua stagnante avrebbe potuto causare il proliferare di malattie, si decise per la seconda alternativa, che era anche la meno ovvia e la più semplice da realizzare con i tempi che avevano a disposizione.

Decine di falegnami si misero al lavoro, ed i loro canti allegri accompagnavano i colpi d’ascia infiniti per ricavare i pali grezzamente tagliati dai tronchi degli alberi delle vicine foreste.

All’alba del terzo giorno, tutti i cittadini furono presi dal panico: una vedetta lanciò l’allarme, un suono di tromba che squarciò l’aria silenziosa e cupa del mattino. Molte persone furono svegliate dalla pesantezza dell’ultimo sonno, molte altre non erano andate neppure a dormire. Fra queste ultime, naturalmente, l’imperatore. Ferano si trovava nella sala del consiglio a studiare un piano strategico fra mille per la battaglia, quando l’allarme lo fece sussultare. Corse trafelato verso l’esterno della reggia, raggiungendo il camminamento settentrionale, dove era appostata la sentinella che aveva dato l’allarme. Era un ragazzo molto giovane, e nei suoi occhi traspariva la paura. Quando vide l’imperatore, non ebbe neanche la prontezza di inchinarsi e salutarlo, tanto era paralizzato. Ma allo sguardo bonario, e insieme interrogativo di Ferano, alzò un dito verso nord est, indicando il cielo.

Ferano rimase senza fiato. Dieci punti scuri in avvicinamento, e diretti verso Alba, volavano in formazione a cuneo. Non si distinguevano ancora, perché erano troppo lontani, ma di sicuro non erano uccelli: erano troppo grandi. Più si avvicinavano, più apparivano enormi.

Volavano maestosi, qualsiasi cosa fossero. Le grandi ali fendevano l’aria, con grazia e solennità. Ogni tanto, i punti neri sembravano circondati da volute di fuoco.

Passavano i minuti. Intanto, un manipolo di arcieri guidata da Calamir aveva affiancato Ferano e la giovane sentinella, disponendosi lungo il camminamento, in posizione di tiro. I punti neri si avvicinavano sempre di più. Adesso, tutti potevano notare come brillavano sotto il riflesso dei primi raggi dell’aurora, svelati da un gruppo di nubi rade. Il silenzio si faceva sempre più denso. Una folla gremita aveva riempito le vie della città, richiamata dall’allarme, sospesa per l’apprensione, ma curiosa davanti all’ignoto. Nessuno parlava. Ferano iniziò ad avvertire il suono graffiante delle enormi ali che colpivano l’aria. Gli arcieri ai suoi lati aspettavano nervosi il segnale per tirare al bersaglio. Ma l’imperatore era indeciso. Temeva il primo attacco del nemico, ma non riusciva a comprendere la natura di quelle creature in avvicinamento. Niente nelle loro sagome maestose faceva presagire un pericolo. Calamir, alla sua destra, incitava con i suoi occhi pieni di urgenza Ferano a dare l’ordine di tirare ai suoi uomini. Ferano poteva quasi annusare l’odore della paura che lo circondava. Ma più i misteriosi uccelli si avvicinavano, più si sentiva tranquillo. Quando i bersagli furono abbastanza vicini per essere raggiunti dalla gittata delle frecce, gli arcieri attorno a lui fremettero, in ansia per l’inattività protratta. Mirarono al cielo, e stavano quasi per tirare, spinti esclusivamente dalla paura, quando l’imperatore alzò la mano e gridò:

“FERMI! NON TIRATE!”

La folla trattenne il respiro, gli arcieri sbigottiti abbassarono gli archi, e Calamir scosse la testa in segno di incredulità per la decisione dell’imperatore.

Ma Ferano sorrideva, perché aveva riconosciuto quelle sagome: le aveva riconosciute ricordando i suoi sogni di bambino. Uno di quei sogni era nato dalle favole raccontate alla sera dalla dolce madre, una mano che accarezzava la sua testa in segno di protezione, la sua voce calda accompagnata dal crepitio del fuoco nel caminetto, nelle lunghe sere d’inverno: un sogno diventato realtà proprio nel momento più opportuno!

“Fermi! Non sono nemici. Sono i leggendari draghi che accorrono in nostro aiuto!”.

Mille sospiri di meraviglia si levarono in aria. Non paura, ma ansia, quell’ansia fervida di emozione che può cogliere un essere umano di fronte al miracolo.

“Aprite le porte! Diamo loro un segno di benvenuto!”, ordinò Ferano, mentre si allontanava di corsa.

Raggiunse le stalle, ordinò ad uno stalliere di sellargli subito un cavallo. Non appena questo fu pronto, Ferano vi saltò sopra: era uno splendido cavallo bianco, fiero e vivace, ansioso di muoversi liberamente. Ferano lo spronò al galoppo, uscendo dalla sua dimora dorata e riversandosi per le strade della città, mentre la folla gli apriva un varco. Tutti avevano riconosciuto il bell’imperatore dai riccioli d’oro, e salutarono con profondi inchini il suo passaggio.

Dopo poco tempo, Ferano raggiunse le porte della città, che nel frattempo erano state aperte, e si ritrovò nella piana che circondava la città. Sotto il primo sole del mattino, coperto sempre da una coltre di nubi nere che solo per qualche attimo lo svelavano da varchi fortuiti, fu invaso da un profondo senso di ammirazione, davanti allo spettacolo che si mostrò ai suoi occhi.

Scese lentamente da cavallo, e si avvicinò con cautela ai dieci colossi che stavano fermi davanti a lui. I dieci draghi, che nel frattempo erano atterrati, erano schierati come quando erano in volo, in una formazione a cuneo: davanti a tutti, un drago rosso imponente più degli altri. Quando Ferano si fu avvicinato, era a pochi metri da loro, i draghi, sorprendentemente, chinarono la testa in segno di rispetto davanti all’imperatore. Ferano trovò istintivo salutarli con la stessa reverenza. Intanto, dietro a lui, la folla era uscita dalla città, e osservava quanto stava accadendo, silenziosa e intimorita. Come era già accaduto all’apparizione di Balur, il senso di panico svanì dai cuori. Quegli animali così antichi, così leggendari, non erano venuti per attaccare, questo era chiaro.

Il drago rosso in prima fila, scintillante nonostante il sole fosse di nuovo sparito dietro le onnipresenti nuvole, rialzò la testa, e fece qualche passo in avanti.

Non indietreggiare, non muoverti. Non è qui per farti del male!, pensava Ferano, paralizzato dai movimenti sinuosi dell’animale che lo sovrastava, ad un paio di metri di distanza. Gli altri draghi rimasero fermi, in attesa che il loro capo esprimesse le sue intenzioni.

Quando gli occhi scintillanti del drago si fissarono su quelli limpidi e sicuri di Ferano, l’uomo potette percepire nello sguardo diretto dell’animale una profonda saggezza millenaria. E quando, incredibilmente, sentì il drago parlare nella sua mente, fu invaso dalla stessa meraviglia che lo colpiva da bambino, quando il padre gli narrava proprio di quegli animali, quando andavano a caccia per i boschi, e si fermavano a mangiare e a riposarsi un po’ prima della tensione che li avrebbe colti cercando le loro prede ignare. Quante volte aveva trattenuto il respiro mentre ascoltava i racconti sui formidabili draghi, che adesso aveva davanti in carne ed ossa! All’inizio era incredulo: pensava che la voce che sentiva nella testa, una voce profonda, non umana nel tono, ma comprensibile, fosse solo frutto della sua immaginazione. Ma quando vide come lo sguardo del drago cambiava espressione via via che la voce parlava, capì che proveniva da lui, ed era tutto reale.

Salve a te, imperatore Ferano!, diceva il drago rosso. Io sono Melkar, il primo rinominato, e ho guidato fin qui i miei compagni rinati al mondo per ordine del grande Balur Occhidibrace!

Un’altra leggenda…, pensava intanto Ferano.

Siamo qui per offrirti il nostro aiuto, e per combattere fino all’ultimo il nostro comune nemico.

Ferano fece una grande fatica a realizzare quanto il drago Melkar stava dicendo. Non perché non lo capisse. Ma perché non gli era mai balenata per la testa la possibilità di avere degli alleati così potenti e, secondo le leggende, invincibili. Forse, dopotutto, non erano poi così soli. Calcolava nella sua mente il peso che i dieci draghi potevano avere nel determinare la forza del suo esercito, e considerò che sicuramente avrebbero decisamente contribuito alla potenza dei loro attacchi. Si sentì felice, quasi imbattibile come quegli animali, e sospirò visibilmente, per il sollievo, e la sorpresa.

Rispose a voce ben alta, cercando d farsi sentire anche dalla folla alle sue spalle, e dai soldati che intanto si erano affacciati da ogni possibile postazione sulle mura di Alba.

“Sono onorato per il vostro arrivo! Ringrazio infinitamente Balur Occhdibrace per avervi mandato qui, e ringrazio ancor di più voi, per la vostra presenza. Portate grande gioia e sollievo!”

Uno scroscio di applausi nacque all’improvviso e si riversò nel silenzio che attraversava la piana di Alba.

I draghi rialzarono la testa. Melkar parlò di nuovo nei pensieri dell’imperatore.

Abbiamo sete di guerra, e il nostro nemico pagherà le conseguenze delle sue azioni!

E, cosa mirabile a vedersi, tutti e dieci i draghi alzarono la testa al cielo, e sputarono fiamme all’unisono, creando enormi colonne di fuoco, che per un attimo si immobilizzarono nell’aria umida, creando un tripudio di luce dove non esisteva. Poi, come si erano formate, le fiamme si esaurirono, sparendo dal cielo ma non dai ricordi.

Calamir e Gormir avevano raggiunto nel frattempo l’imperatore, e adesso erano ai suoi lati, in attesa di ordini. Ferano, quasi commosso per quell’aiuto insperato, disse soltanto:

“Allestite un campo tutto per loro all’esterno della cittadella, e portate tutto quello che i draghi richiederanno. Assicurate loro un giusto riposo dopo il viaggio”.

Ma fu interrotto dalla voce imperiosa di Melkar:

No, mio imperatore! Non siamo stanchi, e non esiste riposo in tempo di guerra! Saremo ben lieti di aiutarvi nelle vostre occupazioni! Presto, compagni, al fossato!

I dieci draghi si librarono nell’aria, leggiadri nei movimenti, e raggiunsero gli uomini che stavano scavando il fossato con enorme sforzo e fatica. Subito presero a scavare con le loro zampe poderose munite di grossi artigli, offrendo un inestimabile contributo alla forza limitata degli uomini. Ferano sorrise di nuovo, pensando che adesso, con l’arrivo dei draghi, il tempo a disposizione per costruire le loro opere di difesa si era come dilatato. Ringraziò di cuore quella manna discesa dal cielo, letteralmente!

Con gratitudine osservò per qualche minuto, assieme ai suoi comandanti, e alla folla silenziosa, i grandi animali che scavavano fianco a fianco con i minuscoli operai, che prima impauriti e incapaci di agire, adesso lavoravano con doppio zelo, e con una felicità nuova nei loro gesti sempre uguali.

“Ci è giunto un grande aiuto”, sussurrò Gormir.

“Davvero non siamo tanto soli, allora…”, rispose Calamir. 

“Stanno giungendo tanti uomini richiamati dal tuo bando, mio signore”, continuò rivolto a Ferano. “E adesso, con i draghi possiamo sperare di mettere insieme un esercito abbastanza potente”.

“Si”, rispose Ferano.  “Abbastanza grande, ma non sufficiente per quello che ci affronterà. Abbiamo ancora tanto da fare”.

I due comandanti annuirono. Meglio rimanere con i piedi per terra. I draghi sarebbero stati di grande aiuto, ma la vittoria era ancora molto al di là delle loro speranze. Nessuno pronunciò a voce alta quelle considerazioni amare. E tutti ritornarono alle loro occupazioni. La folla si ritirò, anche i soldati tornarono all’addestramento, e Ferano con i due comandanti, risaliti a cavallo, si accinse a raggiungere la sala del consiglio per continuare ad organizzare la difesa.

Il terzo giorno passò, e aveva portato tanta speranza con sé.

Passarono altri giorni, tutti uguali, tutti grigi e piovosi. Ferano ripensava alle opere intraprese. Più passavano le ore, più dimenticava la stanchezza, la mancanza di sonno, la tortura dell’attesa. Tutto si appiattiva, tutto perdeva importanza, solo l’attesa esisteva.

Intanto, i soldati si addestravano nell’enorme cortile dietro la reggia. Da mattina a sera, era un clangore continuo nell’aria: sibili di frecce che colpivano sicure il bersaglio, lo scintillante incontro delle punte delle spade, il rumore metallico degli spadoni appena usciti dalle fucine, le urla entusiaste dei soldati emozionati e carichi per l’imminente scontro.

Spesso Ferano, durante la giornata, andava a salutare le sue truppe: dopotutto il comandante dell’esercito era lui, ed era suo dovere parlare con i soldati, pronti a morire per lui. Aveva per essi sempre parole di lode, e i soldati spesso si pavoneggiavano davanti a lui mentre duellavano o tiravano d’arco, o provavano le mazze pesanti d’acciaio. Usava un tono gentile ma autoritario nello stesso tempo, quando li incitava a fare del loro meglio.

“Dal vostro valore dipende la salvezza di Alba! I vostri cuori coraggiosi daranno del filo da torcere ai nostri nemici!”, diceva, “fate parte del più grande e formidabile esercito della storia, e questa è l’occasione per dimostrare a tutti di quanto siamo capaci!”

Così parlava, e spesso duellava con alcuni dei suoi soldati: anche lui partecipava al loro stesso addestramento, perché aveva intenzione di guidare in prima linea la cavalleria nelle sue prime scorrerie verso l’esterno, e si esercitava, non appena poteva, a cavallo, a piedi, al fianco dei soldati semplici, e l’amore di questi ultimi per lui cresceva di giorno in giorno. Mai l’imperatore Ferano si era fatto così benvolere dai suoi sudditi. Era sempre presente, aveva parole di conforto per tutti, non mancava mai di visitare i rifugiati, che nel frattempo stavano iniziando a riempire i tunnel.

Non lo sentiva come un dovere, in realtà. Ormai, i limiti dei doveri di un imperatore li aveva superati da un pezzo. Quella guerra, la sua guerra su cui inizialmente aveva riversato la sua frustrazione per l’amore perduto di Talesa, adesso era diventata una ragione di vita. Aveva finalmente capito che, quando si ha un popolo da comandare, lo si arriva ad amare anche, come e più di una persona, e si accetta tutto, anche di perdere la vita, pur di salvarlo. Questo lui l’aveva capito in un momento di profonda difficoltà, e lo avevano capito anche i suoi sudditi, che lo adoravano.

E, nei cieli di Alba, i draghi compivano le loro acrobazie spericolate, provavano i vari tipi di formazione di volo per sferrare i loro attacchi, e sbuffavano fuoco in segno di euforia e potenza: le loro squame brillavano, di giorno, come mille piccoli arcobaleni senza sole, e di notte, come stelle sfuggite all’opprimente coltre di nubi. Pioveva spesso, ma la pioggia, ormai un contrattempo come un altro, non turbava più gli animi, alleggeriti dalla presenza confortante di quelle splendide creature.

Alba era diventata un cantiere in quei giorni frenetici. Finito il fossato, calati dentro i pali aguzzi, e ricoperto con terra e frasche per nasconderlo agli occhi dei demoni, in modo da cadere in trappola senza che potessero evitarlo, si iniziarono a costruire grandi catapulte, così alte da sovrastare i già ragguardevoli muri, bianchi e lisci, della cittadella. Si usarono come proiettili i massi più grossi che la forza di un uomo poteva sostenere, presi dal terreno antistante alla piana di Alba. Grandi botti di olio e pece erano già stati portati sui camminamenti e all’interno delle caditoie, posti su enormi bracieri che rimanevano perennemente accesi, per mantenere la temperatura bollente. Via via che un’opera veniva compiuta, gli uomini preposti alla costruzione delle fortificazioni difensive andavano ad ingrossare le file dell’esercito, ed erano sottoposti ad un tipo di addestramento molto intenso, perché non erano soldati di professione.

All’ottavo giorno, il cantiere si fece silenzioso: ciò che andava fatto era stato portato a termine. Nell’aria, soltanto il rumore delle fucine e le grida di incitamento dei soldati, e qualche sbuffo ilare dei draghi, che privilegiavano il cielo al terreno sotto le zampe, perché volavano quasi di continuo.  A guardarli, sempre con lo stesso stupore, gli arcieri, che da qualche ora si erano appostati sui camminamenti, pronti a vedere da un momento all’altro il nemico avvicinarsi all’orizzonte nero.

Tutto quello che si poteva fare, era stato fatto.

 

Ferano si riscosse dai suoi pensieri: un rumore secco aveva distolto la sua attenzione dalle riflessioni casuali che richiamava la sua mente. All’inizio pensò che si fosse schiantato un ciocco di legno nel camino, ma il fuoco si era spento da tempo. La notte era ormai alla fine. Tra poco, sarebbe giunta l’alba di un nuovo giorno. Di nuovo, quel rumore.

Avevano bussato alla porta. Doveva essere qualcosa di estremamente importante, per disturbare quello che tutti credevano il sonno dell’imperatore. Ferano aveva ormai dimenticato il sonno, e anche adesso non poteva permettersi di riposare. Faticosamente, si alzò dal divano, e andò ad aprire di persona la porta. In quei giorni, aveva rifiutato ogni servigio dei suoi inservienti, che potevano così servire ad altri scopi più utili e nobili. Quando aprì la porta, Calamir non si stupì di trovarlo solo.

“Perdonami il disturbo. Otto cavalieri aspettano fuori dalla porta settentrionale, e chiedono di vederti con insistenza”.

Ferano pensò un attimo.

“Ti sembrano ostili?”

Calamir scosse la testa.

“Niente affatto, ma sono moto strani. Sette sono uomini, e sembrano comandati da una donna. Tutti indossano mantelli grigi con enormi cappucci che nascondono il viso. Montano otto destrieri bianchi come la neve e…”.

“Va bene”, lo interruppe Ferano, “introducili nella sala del trono, assicurati che i loro cavalli siano ben accuditi, e pregali di aspettarmi lì”.

Calamir chinò la testa in segno di assenso e si accinse a ritirarsi. Ma Ferano lo fermò con una domanda già sottintesa da giorni, ormai.

“Calamir… Nient’altro?”

Il comandante corrugò la fronte, gli occhi velati di preoccupazione non più celata.

“Nessun segno del nemico all’orizzonte, signore”.

Il silenzio rese pesanti come macigni le sue parole.

“Va bene, Calamir, puoi andare”, disse l’imperatore.

Il giovane comandante si ritirò velocemente con un inchino appena accennato, per eseguire gli ordini appena ricevuti.

Ferano sospirò, e in cuor suo sperò che gli otto personaggi non fossero latori di cattive notizie. L’attesa dell’esercito nemico era diventata per tutti insostenibile, ormai. E ogni evento inaspettato portava sempre profonda ansia.

Dopo circa mezz’ora, Ferano fronteggiava gli otto sconosciuti nella sala del trono, appena rischiarata dall’alba del nono giorno. Davanti a lui, sette uomini vestiti di grigio, molto simili fra loro, perché molto avanti negli anni, con lunghi capelli bianchi e barbe curatissime, portate in varie fogge. Al centro, una donna alta, non più giovanissima, indossava un semplice abito marrone da viaggio, molto simile a quello che indossava Talesa l’ultima volta che l’aveva vista, quasi uscisse dalle mani della stessa cucitrice. La donna aveva lunghi capelli rossi che le ricadevano in riccioli disordinati sulle spalle e la schiena, e limpidi occhi verdi. Non era eccezionalmente bella, tuttavia molto attraente: a Ferano ispirò subito fiducia, dalla sua espressione traspariva la giusta autorità che la rendeva il capo di quello strano gruppo.

Ferano non parlava, aspettando che la donna fosse la prima a prendere la parola.

Dopo minuti passati a studiarsi reciprocamente, e dopo che l’espressione della donna si distese in un sorriso aperto, uno degli uomini alle sue spalle parlò per tutti.

“Mio signore, davanti a te il nuovo Maestro del santuario di Querciacaduta, la nostra signora Mara”.

La donna si voltò verso il Custode che aveva parlato, e lo ringraziò con un cenno del capo. Poi rivolse di nuovo il suo sguardo verso l’imperatore. Prese finalmente la parola, con voce forte e sicura.

“Mio imperatore…”.

“Mara”, rispose l’uomo.

“Non voglio perdermi in un discorso cerimonioso che ci farebbe sprecare soltanto tempo prezioso”.

Ferano, colpito dall’intraprendenza della donna, non potette che essere d’accordo. Lasciò continuare Mara.

“In questo momento di estremo pericolo per tutti noi, abbiamo deciso di interrompere la nostra clausura durata secoli, e di venire qua ad offrirti il nostro modesto aiuto”.

Non volendolo, il viso dell’uomo si dipinse di sollievo e felicità.

“Mi porti una notizia alquanto lieta, Mara. Ogni aiuto, per quanto piccolo, può essere fondamentale, in questa situazione”.

Ma Mara non aveva finito.

“Ho un debito verso di te, Ferano. Tutti noi l’abbiamo. La missione di Talesa, che sta rischiando la vita, è sulla bocca di ogni persona che abbiamo incontrato venendo qua”.

“Sta bene?”, non potette trattenersi dal chiedere l’uomo.

“Ho comunicato con lei in una visione di sogno non più di due giorni fa. È viva. Sta bene”.

Un silenzio imbarazzato corse fra loro. Ferano aveva capito di essersi in parte scoperto, mostrando una preoccupazione forse eccessiva per la ragazza dei suoi sogni, e Mara era stata pronta ad intuirlo. Ma durò pochi attimi.

Un brusio di soddisfazione intanto si levò fra i custodi alle spalle di Mara, la quale riprese di nuovo il discorso.

“Io e i miei consiglieri siamo pronti ad offrirti i nostri servigi, incondizionatamente”.

Ferano la guardò attentamente. Nessuno di loro era armato, anzi in realtà non sembrava nemmeno che avessero mai preso in mano un’arma di qualsiasi genere. La domanda successiva sorse spontanea.

“Perdonami se lo chiedo, Mara, ma in che modo pensate di aiutarci?”

Mara scambiò un breve sguardo divertito con gli altri uomini, e poi si voltò di nuovo verso Ferano, il quale pensò che la donna aveva un sorriso irresistibile. Con voce divertita tanto quanto la luce che le brillava negli occhi smeraldini, Mara rispose con una sola parola.

“Magia”.

Il suono di quella parola tintinnò nell’aria come la più allegra delle musiche. Ferano sorrise apertamente, anzi scoppiò in una risata spontanea e liberatoria. Gli fecero eco subito le risa non più trattenute degli altri.

L’ansia per l’attacco improvviso non era scomparsa, ma sicuramente la speranza cresceva sempre più nei cuori ricolmi di nuova fiducia verso un futuro che non sembrava più così buio.

 

 

 

 

 

 

 

 

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