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  • : Blog di Sara Cespoli
  • : Luogo non luogo per lasciare impressioni, pensieri, emozioni.Per scambiare progetti, opinioni, sogni. Per immaginare quel mondo fantastico che ognuno si porta nel cuore.Talesa è un libro, ma anche un modo come un altro per farmi conoscere non solo come scrittrice, esordiente e ancora non conosciuta, ma anche come persona. Benvenuti a tutti quelli che passeranno di qui!!!
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manuela romanelli marina

 

UN FATTO DI CRONACA

 

 

Le volute di fumo che si inanellavano dall’ennesima sigaretta mi tranquillizzavano. Era come se quel filo evanescente ponesse le distanze da ciò che mi circondava. Quella mattina, il risveglio aveva portato con sé un’inquietudine appannata. Emergendo dal dormiveglia, la luce dell’alba che filtrava dalle persiane socchiuse, non riuscivo a prendere contatto con la realtà. Come se ne mancasse un pezzo. Come se il sonno mi tirasse con violenza verso l’oblio. Poi, il suono fastidioso della sveglia mi aveva scosso e mi ero destato completamente.

Avevo poco tempo per prepararmi. Amavo svegliarmi all’ultimo minuto, godermi il riposo completamente. In questo modo, accettavo meglio il fatto di dover andare al lavoro.

Doccia capelli barba. Lo specchio come muto compagno. La solita routine si srotolava davanti e dentro di me senza che ne fossi consapevole.

Il rumore di sottofondo del bar si mescolò al fumo della sigaretta. Da quanto ero seduto lì? Il tempo, nella mia mente, si era come fermato. Non scorreva in modo lineare.

Sapevo che era tardi, che al lavoro magari erano già preoccupati perché non mi avevano visto arrivare.

Ma l’apatia era troppo forte. Non riuscivo a muovermi, e fissavo ebete il filo di fumo davanti a me, scoprendo movimenti danzanti sempre nuovi, sempre uguali.

Sospirai. Schiacciai la sigaretta nel posacenere, e mentre il caffè si freddava, dimenticato sul tavolino, presi in mano un quotidiano.

Magari leggere notizie di cronaca mi avrebbe aiutato a riprendere contatto con la realtà che continuava a sfuggirmi.

Il fruscìo delle pagine a malapena lette testimoniava quanto poco interesse avessi per il giornale. Le parole sembravano ballare davanti ai miei occhi. Dovevo avere uno sguardo molto perplesso, ma nessun avventore mi gettò un’occhiata.

Il tintinnìo delle tazzine, il gorgoglìo del vapore, i bicchieri posati sul bancone di marmo, ogni cosa scorreva lontana da me, ed io non l’avvertivo. Le persone sembravano evitarmi, nessuno mi aveva rivolto la parola.

Che aspetto terribile dovevo avere?

Mentre le parole stampate continuavano a sfuggirmi, nella mente mi scorrevano immagini confuse di quella notte.

Avevo sognato molto. Lo sapevo con certezza, ma come al solito, al risveglio non ricordavo nulla. Soltanto adesso, qualche ricordo cominciava ad emergere.

Sabbia. Ricordavo tanta sabbia che mi graffiava il corpo. Ero seminudo. Avevo fatto l’amore?

Il mare mi lambiva con le sue onde indifferenti. Era notte. Qualcosa di scuro serpeggiava tra la sabbia.

‘Merda!’ esclamai. Avevo rovesciato il caffè, e il liquido nero scottante stava impregnando il giornale. Presi un tovagliolo per arginare il danno, e ad un tratto una foto in bianco e nero attirò la mia attenzione.

C’era, per l’appunto, una spiaggia. Con auto della polizia, passanti in costume, e un telo verde steso a terra, che nascondeva qualcosa.

L’ennesimo omicidio, pensai.

Cercai di leggere l’articolo, e le parole smisero di ballare.

Faticai a cogliere il senso di quanto stavo leggendo. Non perché non lo comprendessi. Capivo fin troppo bene.

Scoppiai a ridere.

Impossibile.

Secondo il giornalista, sotto quel telo verde c’era il corpo, rinvenuto prima dell’alba, di tale Giacomo Traversi, 37 anni, brillante avvocato, residente a Pisa. Era stato rinvenuto, insieme alla sua ragazza, da alcuni passanti. Una foto più piccola ritraeva Elena, la fidanzata straziata dal dolore.

Mi colse un senso di fastidio.

Lo stesso fastidio di quando una mosca ti ronza intorno.

Il caffè versato lambiva la testa di Elena, come se uno scuro manto la avvolgesse.

Dubitai fortemente di quello che stavo vedendo e leggendo. Mi toccai il viso.

Mi guardai attorno, ma per fortuna nessuno badava a me.

Quell’articolo parlava di me.

Era assurdo, stavo bevendo il mio caffè, pochi minuti prima!

Fissavo sbalordito la foto, mentre immagini confuse del mio sogno emergevano, richiedendo con urgenza il mio interesse.

Sabbia. Qualcosa di scuro.

Un dolore lancinante alla testa.

Una mano piccola e curata che reggeva un sasso appuntito macchiato di rosso.

Il caffè raggiunse le mani giunte di Elena.

Elena. La mia futura moglie. Stamattina avremmo dovuto fare colazione insieme, proprio in questo bar. Alzai gli occhi, mi guardai intorno, lei non c’era.

Ma io sapevo perché.

Avevamo litigato, la notte prima, dopo aver cenato in quel ristorante in riva al mare.

Sospettavo che mi stesse tradendo. Ero stato molto duro con lei, dovevo ammetterlo. Non sopporto il tradimento, e non sono capace di perdonare. Neanche la mia futura sposa.

La lite era stata abbastanza violenta. Ricordavo poco. Eravamo ritornati ognuno a casa propria, promettendo l’un l’altra che ci saremmo chiariti a mente fredda.

Una spiaggia, qualcosa di scuro, no, di rosso. Sangue, che impregnava i granelli freddi della sabbia. Come il caffè sulle mani giunte di Elena. Stavo rivivendo il mio sogno. Non era altro che un sogno. Perché quella mattina mi ero fatto la barba, avevo fischiettato un bel motivetto mentre mi guardavo allo specchio.

Poi, all’improvviso, mi ero osservato la fronte. Avevo una ferita molto profonda che sanguinava. Avevo tamponato il sangue con un asciugamano, poi mi sono reso conto che la ferita era sparita. Avevo gettato l’asciugamano, pulito, dentro il cesto della biancheria sporca, senza dare importanza a quella fantasia. Prima di uscire di casa, avevo buttato giù due aspirine per il mal di testa.

Tutto qui.

Le mani giunte di Elena, le sue lacrime.

Le mie mani, il pulsare alla testa che non mi abbandonava.

Fissavo ancora l’articolo, e mentre iniziavo a ricordare tutto, la foto di Elena si animò.

Elena aveva aperto gli occhi. Non piangeva più. La sua espressione mutava di secondo in secondo. Mi guardò. E rise. Un riso sardonico, malvagio, scevro di ogni sentimento che non si avvicinasse alla rabbia. Le mani, non più giunte, giocherellavano con un sasso appuntito. Iniziò a colpirmi.

Come nel sogno, caddi ginocchioni, i pugni conficcati nella sabbia. Il colpo fu talmente inaspettato che non avevo potuto difendermi. Inoltre, per quanto arrabbiato potevo essere stato, non avrei mai potuto fare del male ad Elena. Non fisicamente, almeno.

Ma lei continuava a colpirmi, e gridava gridava.

Era notte. Nessuno avrebbe compreso la verità. Era troppo palese come era andata. Un’aggressione. Ero privo di soldi e documenti, Elena aveva provveduto al riconoscimento. Confermava l’aggressione, cui aveva assistito. Mostrava segni di violenza: polsi e caviglie lividi, era stata legata. Stuprata, dicevano le prime perizie.

Nessuno avrebbe mai saputo la verità.

Lei mi aveva ucciso!

Che ci facevo in quel bar?

Lessi la data del giornale, l’articolo risaliva a un anno prima.

Colsi una risata inconfondibile fra i rumori del bar. Mi girai e la vidi.

Era bellissima, sedeva a un tavolino non molto lontano dal mio, accanto a lei uno sconosciuto. Il suo nuovo compagno? Non mi importava granchè, anche se fosse stato l’uomo con cui mi aveva tradito. Non mi importava davvero granchè.

La verità arrivò in fretta.

Lei incrociò il mio sguardo.

Lei era l’unica che poteva vedermi. Accesi un’altra sigaretta.

 

Le volute di fumo che si inanellavano dall’ennesima sigaretta mi affascinavano. E sapevo che lei, invece, ne era terrorizzata.

Finii la sigaretta, mi alzai lentamente strappando la pagina del giornale con l’articolo che parlava di me. Mi avvicinai  a lei.

L’uomo che le sedeva di fronte la scosse per una spalla.

‘Elena, che cos’hai, sembra che tu abbia visto un fantasma!’

Non sapeva quanto era vicino alla verità. Appallottolai con sprezzo la pagina del giornale davanti a lei. Tanto nessuno poteva vedermi. Né me, né quello che stavo per fare.

Le afferrai il cuore, e glielo strappai dal petto. Prima di chiudere gli occhi per sempre, Elena lo vide palpitare fra le mie mani giunte. Mi ero messa in posa per lei. L’ultima fotografia.

Elena cadde a terra. L’uomo che era con lei la soccorse, mentre tutte le persone presenti si accalcavano attorno al loro tavolino.

Io me ne andai. Ripresi la pagina spiegazzata del giornale e vi avvolsi il cuore. Lo gettai nel primo cestino che mi si parò davanti una volta uscito dal locale. Tanto, nessuno lo avrebbe trovato. In realtà non esisteva. Ma per me…

Avrebbero detto che la donna era morta di infarto. Come se il suo cuore, nonostante lei si fosse rifatta una vita, non avesse retto al dolore per la perdita del fidanzato, un anno prima.

Era morta di crepacuore. E nessuno avrebbe mai saputo che ad ucciderla era stata la sua Nemesi, tornata a riscuotere il suo debito.

Scomparvi dal mondo dissolvendomi in volute danzanti di fumo.

Dopo un anno preciso, avevo finalmente trovato la mia pace.

 

 

 

 

 

 

 

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